Mi chiamo Mohamed e sono Senegalese. O meglio, “Senegaliano”, siccome vivo da ventidue anni in Italia. Non sono più il giovane che ha lasciato l’Africa, né tantomeno sono Italiano. Mi considero un ponte. Quel ponte è uno strumento da attraversare e prepararsi a quel viaggio significa che ciascuna delle parti vada ad acquisire la consapevolezza di sé.
E’ un momento travagliato, in cui le culture sembrano scomparire, per mettere al centro ciò che ci unisce: il potere d’acquisto. E quando è l’avere che condiziona l’essere, CHI NON HA NON E’, né può pretendere di esistere. Il risultato è che pochi hanno tanto e tanti hanno niente e chi non ha niente crede che la terra promessa sia altrove, oltre il deserto, oltre il mare. Poi, arrivati a Milano, ci si scontra con gli ultimi della catena sociale, gli esodati, i “cassa disintegrati”, quegli ultimi che vedono i propri diritti mortificati. E invece di porvi rimedio, questo conflitto sociale viene alimentato e la diversità etnico culturale diventa fonte di insicurezza.
Io ho scelto di non parlare di me, ma di ciò che mi consente di rivendicare la mia “africanità”, ripescando quei valori condivisi da tutti gli stati negro africani in epoca precoloniale: un invito a cambiare di prospettiva ed allontanarsi dall’etnocentrismo. Fin dal tempo delle esplorazioni, non si è mai dato credito al pensiero delle popolazioni, ma ci si è affidati al pensiero degli africanisti, dei sociologi, degli storici, dei ricercatori, senza mai davvero aprire le menti ed ascoltare il grido del cuore della popolazione negro africana. L’Africa è passata dalla schiavitù, alla schiavitù degli aiuti. Siamo dovuti scendere a patti con la nostra memoria, superare ciò che avrebbe potuto portarci ad avere un giudizio negativo della popolazione occidentale. Non siamo stati noi ad accorciare le distanze tra continenti ed imporre i nostri stili di vita, la nostra lingua, la nostra religione. Abbiamo subito. E nonostante ciò, vedo in voi delle amiche, delle sorelle, perché siamo scesi a patti con la nostra memoria, non abbiamo cercato di riscrivere la storia: la storia è quello che fu. Ma ci è stato detto di fare lo sforzo di analizzare quella storia, capirla, coglierne gli insegnamenti per evitare gli errori del passato. Ecco perché è necessario darci il nostro spazio nel panorama sociale, culturale e religioso.
Non vi è mai una cultura esclusiva: ogni cultura è figlia di micro sottoculture. La maggior parte di quegli usi viene da terre lontane. Oggi abbiamo un dovere nei confronti delle generazioni future. Quando ci sarà chiesto: “cosa avete fatto”? Io potrò dire che ho allestito questa mostra di maschere africane per raccontare ai cittadini italiani l’organizzazione sociale, culturale e religiosa della cultura negro africana prima del congresso di Berlino. L’Africa è un continente molto ricco, con molte materie prime, giovane. Ma dei venti paesi più poveri, diciotto sono africani. Miliardi vengono stanziati all’Africa dall’Europa come forma di aiuto, eppure ogni giorno barconi di migranti africani sbarcano sulle coste. Forse dovremmo chiederci che fine fanno i soldi che versiamo nelle casse di quei governi, se i giovani continuano a migrare.
Non bisogna avere paura del diverso perché, al peggio, nell’incontro con il diverso rimarrò semplicemente me stesso. Il diverso oggi fa paura perché vi è meno la consapevolezza di chi si è. Quello che si è nella vita non è motivo di orgoglio, né di vergogna, perché è legato alla fatalità del caso. Invece quello che si diventa lo è. Io non ho scelto di essere Senegalese: il caso ha fatto di me un Senegalese. Così Mario Rossi non ha scelto i suoi genitori, il suo nome, dove nascere. La stessa fatalità che ha fatto di lui un Italiano, ha fatto di me un Senegalese. Ma allestire la mostra è merito mio. Dobbiamo premiare il merito. Non è una dannazione essere Africano: il valore umano va al di là del passaporto. Non voglio essere giudicato perché Senegalese, ma sulla base di quello che faccio nella mia quotidianità. Se non viene dato a ciascuno lo spazio per raccontarsi e farsi vedere per chi si è, allora si crea il luogo comune, serbatoio di pregiudizi, soprusi, indifferenza. Allora mi conviene costruire una barriera che mi impedisca di vederti. E per abbattere questo muro mentale c’è un solo strumento: la cultura.
Il problema è politico. Quando si è capo casa, tutti quelli che abitano in quella casa sono figli tuoi. L’ideale sarebbe aprire il salotto ed ascoltarli. Perché i retaggi culturali ci hanno portati a pensare in chiave coloniale, il paternalismo dei “poverini”. Ma anche il povero ha un pensiero: se non ci si mette nelle condizioni di portare anche noi quello che siamo e che ci siamo portati dentro, dall’Africa, allora c’è un problema. Il punto è andare al di là, perché non sono ciò che gli altri vedono guardandomi da lontano. Le parole hanno un senso. Ci si è sempre limitati a sentire gli altri: è giunto il momento di ascoltarli. Ne abbiamo di cose da dire.
La diversità non è un reato: dobbiamo passare da società multiculturali a società interculturali, perché gli esseri umani non si integrano, ma interagiscono e trovano un punto di equilibrio. La via dell’interculturalità non è quella che passa da casa mia, né quella che passa da casa tua, ma si trova all’incrocio tra le due strade, dove piantare una tenda, sederci, bere del tè: unirci attorno a ciò che ci accomuna.
Spiegare chi sei è un dovere morale, perché il territorio che ti accoglie ti dà la possibilità, consegnandoti quel documento, di riconoscerti parte di quella società, ti dice che tu esisti come persona … ma a quale condizione. Ognuno di noi è portatore di valori, di culture e tradizioni che non sono necessariamente quelle di chi ti accoglie. Eppure, non possiamo rimanere perennemente imbavagliati nel nome dell’integrazione.
Ripeto, ciò che si è non è motivo di vergogna o orgoglio, ma ciò che si diventa si. Essere Senegalese è un dato di fatto, lo vedi dai tratti somatici. Ma il pensiero è rimasto tale e quale? Sono ancora rimasto incastrato nelle capanne del villaggio, oppure sono diventato parte della metropoli? Come si fa a saperlo? Mettendomi nelle condizioni di condividere chi sono e da dove vengo.
Io sono figlio di mio nonno, perché oltre a mia mamma e mia zia aveva un solo figlio maschio, che è morto in Francia nella seconda guerra mondiale. Io sono nato poco dopo e mi è stato dato il suo stesso nome: Mohamed. Per questo da bambino avevo il dovere di stare seduto un paio d’ore ogni sera a sentire il nonno raccontare delle maschere.
Il tempo passato in un luogo ti trasforma, anche se non se ne ha visione immediata. In Italia, vivendo da solo, ho imparato a fare tutto a casa: cucinare, lavare, stirare … Quando sono tornato a casa per la prima volta, ho voluto fare un gesto d’affetto per mia mamma, che tanto mi aveva dato. Infatti, ho sempre visto mia mamma faticare per inventarsi dei piatti per sfamarci ed il primo desiderio una volta rientrato a casa è stato quindi di cucinare per lei. Ricordo infatti che quando tornavo a casa da scuola trovavo mia mamma sotto un albero, la pentola sul fuoco e l’acqua che bolliva.
Così ho detto: “Mamma, è arrivato il momento di mostrarti la mia gratitudine”
“Mi hai portato una parrucca ? ”
“No, oggi cucino io per te ”
“Ma sei matto, mi fai vergognare! Cosa diranno i vicini?! ”
Ho insistito, così mia mamma mi ha chiuso in cucina per paura mi vedessero. Faceva un caldo tremendo …. Poi si è affacciata alla finestra per chiedermi cosa preparassi ed ho risposto “Spaghetti al cartoccio: un piatto italiano, vedrai mamma …” Mia mamma è scoppiata a ridere ed ha chiamato mia sorella: “Cosa cucini Mohamed?” “Spaghetti al cartoccio, vedrai …” Anche mia sorella è scoppiata a ridere ed è andata a chiamare le sue amiche. Stupito, ho chiesto: “Ma perché ridete?” “Perché non sappiamo che hai nelle mani, perché quando parli fai così” (gesti) …. Lì mi sono accorto di essermi italianizzato, senza che me ne fossi reso conto.
Dobbiamo essere forti e dire con leggerezza le cose drammatiche e drammatizzare le cose leggere, perché nella storia le nefandezze più brutte hanno sempre avuto basi legali. Ma non tutto quello che è legale è giusto, mentre tutto quello che è giusto dovrebbe essere legale. Quando la sera vado a letto mi pongo queste domande: cosa ho fatto oggi che non avrei dovuto fare e cosa avrei dovuto fare che non ho fatto e come lo ho fatto. E’ fondamentale porsi quelle domande che portano a non vivere con la sufficienza di quanto fai, altrimenti ti siedi sul divano ed è molto grave. Dobbiamo bandire la ragione della forza e far prevalere la forza della ragione. Abbiamo dei maestri che ci hanno lasciato in eredità messaggi di pace e amore, ma, ahimè, le cose non sembrano molto migliorate e, nonostante i maestri, la tendenza a compiere il male sembra spesso avere la meglio. Il mio sogno è quello di vedere l’umanità unirsi attorno a ciò che la accomuna: la stessa appartenenza al genere umano. Non so se il mio sogno potrà mai essere realtà, ma, se ci dovessimo riuscire, non assisteremmo più a lacerazioni, nessuno si sentirebbe più al centro del mondo ma parte di un tutto che è la famiglia umana. Non è difficile, in fondo cosa siamo noi se non un vecchio spermatozoo ed un futuro cadavere. Questo siamo, non vale la pena vivere questo dramma umano. Il passaggio è talmente breve in questa vita che è meglio vivere attimo dopo attimo, senza rimpianti.